brumm > intervista a Jacky Ickx
JACKY ICKX

"Il Conte delle Ardenne"

di Danilo Castellarin

Come iniziò la sua lunga storia con la Scuderia Ferrari?

Il primo contatto avvenne nell’estate del 1967, in Sicilia, sulla pista di Enna. Bandini era morto da pochi mesi. In squadra c’erano Chris Amon e Jonathan Williams. Mike Parkes era in ospedale per il grave incidente capitatogli vicino a casa mia, in Belgio, a Spa Francorchamps, le gambe a pezzi. Fu il direttore Franco Lini ad avvicinarmi. La mia storia con la Scuderia Ferrari cominciò così.

C’è chi dice che nel 1968 Maranello puntava su Jackie Stewart. Ma lo scozzese, dopo un lungo tiramolla, disse no grazie…

Ferrari voleva Jackie Stewart. Era lui il più quotato per l'assunzione. Solo che dopo molti tentennamenti e dopo aver corso con una P4 alla Mille Chilometri di Brands Hatch 1967 in coppia con Chris Amon per difendere il titolo nel Mondiale Marche, Stewart decise per il no. E allora chiamarono me.

Partito per caso, fu comunque il capitolo agonistico più importante della sua vita. Nel luglio del 1968, lei riportò alla vittoria la Ferrari Formula 1 al Grand Prix de France, sulla pista di Rouen, dopo un digiuno di due anni.

Azzeccai la scelta giusta, le gomme da pioggia. E sul bagnato, effettivamente, mi divertivo a guidare. Peccato che la mia prima vittoria in Formula 1 sia stata contrassegnata dalla morte di Jo Schlesser, su Honda.

A Monza, nel 1968, ebbe meno fortuna e arrivò solo terzo. Alla Ferrari la accusarono di aver sbagliato l’uso dell’alettone posteriore, che poteva restare inclinato in curva per aumentare l’aderenza ma che doveva appiattirsi in rettilineo grazie ad un comando manuale…

Dissero che la colpa era mia, che non sapevo governare quell’arnese complicato. Ma in realtà le cose non andarono così. C’era un problema di vapour-look, di alimentazione. Io mi fermai ma il difetto non venne risolto. Forghieri urlava sempre….

Fu un peccato perché lei, ad appena 23 anni, era secondo nella classifica del Campionato del mondo alla fine della sua prima stagione completa in Formula 1, a tre punti dal grande Graham Hill...

Restavano solo tre prove da disputare: Canada, Stati Uniti e Messico. La gara successiva si corse il 22 settembre 1968, al Mont Tremblant, 383 chilometri da correre nei boschi canadesi. Potevo farcela, la pista mi piaceva, la Ferrari andava bene. Ma in prova finii fuori strada, sfasciai la macchina e mi ruppi una gamba.

Che cosa capitò?

Subito dissero che era ancora colpa mia, tanto per cambiare. Dicevano che ero troppo irruento e focoso. In realtà, come ammetterà lealmente molti anni dopo il capomeccanico Giulio Borsari, l’acceleratore rimaneva bloccato. Io avevo segnalato il difetto ma ai box non mi credettero. Così finii fuori strada. Peccato. Perchè non fu compromessa solo la gara ma l’ultima chance di conquistare il campionato del mondo, vinto appunto da Hill su Lotus 49.

Fu a causa di quell’incidente che a fine stagione se ne andò una prima volta dalla Ferrari?

No, non fu per quello. Io volevo correre quanto più possibile e nel 1968 Ferrari non aveva partecipato al Mondiale Marche, così io avevo corso con la Ford Mirage vincendo a Spa Francorchamps, Brands Hatch e Watkins Glen. Per il 1969 mi proposero di correre ancora per i loro colori. Io misi come condizione la possibilità di correre anche in Formula 1 e la Ford mi propose il team Brabham, legato alla Gulf, lo stesso sponsor della Ford di John Wyer. Così raggiungemmo un ottimo accordo.

Con quali vetture ha corso per la Scuderia Ferrari?

Formula 1, Formula 2, Sport-Prototipi, tutto quello che c’era da guidare. Nel 1968 e nel 1970 sfiorai il campionato del mondo di Formula 1. Nel 1972 trionfammo in tutte le gare con la 312 P Boxer che permise a Maranello di conquistare l’ennesimo Mondiale Marche.

Il 1969 fu l’anno della sua straordinaria vittoria alla 24 Ore di Le Mans, all’ultimo giro…

Dopo ventiquattro ore di gara eravamo rimasti in due a contenderci la vittoria, io e Hans Herrmann, su Porsche 908. Capii subito che avrei potuto vincere con una mossa psicologica. Così feci credere a Hans che la sua Porsche era più veloce in rettilineo grazie alla sua coda lunga. Continuai con grande regolarità a farmi superare sull’Hunaudierès e a riacciuffare la Porsche nelle curve della chicane che immetteva nel rettilineo dei box. Il gioco del gatto e del topo funzionò a meraviglia. Hans si sentì sicuro di potercela fare. Ma all’ultimo giro, quando lo vidi affiancato ad oltre trecento all'ora sull’Hunaudierès, decisi che il bluff era finito e tirai fuori dalla GT40 tutti i cavalli che aveva nel motore, andando a vincere la prima delle mie sei 24 Ore di Le Mans.

La sua vittoria fece scalpore anche perché lei partì volutamente per ultimo, attraversando lentamente la pista, senza correre alla disperata come gli altri piloti…

Quella corsa a piedi non aveva senso, era diventata maledettamente pericolosa. Un’inutile concessione allo spettacolo che metteva a repentaglio la nostra vita. Tant’è vero che dall’anno successivo la partenza ‘tipo Le Mans’ venne definitivamente abolita.

Nel 1970 tornò alla Ferrari. Ma al Gran Premio di Spagna, al Jarama, la 312B si trasformò in un rogo…

Era davvero una grande macchina, finalmente all’altezza delle avversarie. Ma in Spagna si trasformò in una prigione di fuoco perché Jacky Oliver, forse per un guasto ai freni, centrò la mia 312B di fianco, con violenza, ad una velocità impressionante. Superato lo choc, cercai di attivare l’estintore di bordo. Certo non sarebbe bastato, da solo, a spegnere l’incendio, perché trent’anni fa non ci si fermava al box per il rifornimento, partivamo a serbatoio pieno. Provi a immaginare il rogo che si era sviluppato intorno…

L’estintore di bordo che protezione assicurava al pilota?

Quel liquido teneva le fiamme lontano dal corpo garantendo almeno 12 secondi di sopravvivenza. Ricordo che ero circondato dal fuoco, che però non riusciva a raggiungermi grazie agli spruzzi di schiuma.

Capiva il pericolo?

Perfettamente. E cercavo disperatamente di slacciarmi le cinture, per fuggire dall’auto e mettermi in salvo. Il guaio è che nell’impatto la scocca si era deformata e non riuscivo più a raggiungere il fermaglio della cintura. Così, quando l’estintore di bordo fu vuoto, ancora non ero riuscito a liberarmi.

E allora, che cosa fece?

Ormai le fiamme mi avevano raggiunto ed io sapevo che non potevo contare su altri aiuti poiché nessuno poteva entrare in quel rogo senza una tuta di amianto. E al Jarama i commissari non erano dotati di quell’equipaggiamento. Dovevo uscire da solo. Oppure morire. Dopo circa venti secondi, quando già era iniziato il processo di asfissia, le mie dita riuscirono miracolosamente a slacciare la fibbia e saltai fuori dall’abitacolo. La mia tuta bruciava. Ero una torcia umana. Non capivo dove andavo, la visiera del casco era fusa, io ero stordito. Feci una corsa cieca, cercando di realizzare la direzione della gara, ma rischiai di essere investito da altri piloti. Andò comunque bene. Sentii uno spruzzo violento colpire la tuta ormai in fiamme. Caddi a terra, avevo l’erba sotto di me. Ce l’avevo fatta.

La sua ripresa fu sorprendente e a metà stagione il dodici cilindri boxer di Forghieri riuscì a trovare la necessaria competitività…

Sì, ma era ormai troppo tardi per rimediare al vantaggio che nel frattempo aveva accumulato Jochen Rindt sulla veloce Lotus 72, prodigio di aerodinamica e leggerezza.

Il 1971 e il 1972 non furono anni leggeri. Nel 1973 la Ferrari decise addirittura di ritirare la squadra per una ‘pausa di riflessione’.

Fu allora che accettai di guidare una McLaren al Nurburgring. Conquistai il terzo posto in griglia e al traguardo. Dimostrai che Ickx era sempre un buon pilota.

E le Ferrari?

Le Ferrari continuavano a dare risultati mediocri perché la squadra non c'era e i progetti neppure. Il guaio è che non c'era nemmeno l'ammissione precisa delle responsabilità. Enzo Ferrari continuava a dare la colpa agli ingegneri, ai piloti, alle macchine. Dipendeva dal momento. Quando decise di ritirarsi dai Gran Premi io ci rimasi male. Che dovevo fare io? Stare a guardare gli altri che correvano? Così me ne andai alla McLaren, per una gara soltanto. Era una verifica. Un metodo semplice per capire chi aveva ragione, per vedere come stavano davvero le cose. Se non andavo io o se a non andare erano le Ferrari.

Lei riuscì a fare meglio di Hulme e Revson, piloti ufficiali Mclaren, che conoscevano perfettamente le caratteristiche di quella monoposto…

E’ così, ma non correvo contro di loro. Cercavo la verità. Che è saltata fuori non appena ho avuto quella macchina fra le mani. Ho dimostrato dov'era il problema. Perché sono immediatamente tornato a un buon livello. Con un'auto che non conoscevo….

Torniamo ad Enzo Ferrari, che ricordo serba di lui?

Sul suo conto abbiamo sentito molte storie diverse e contraddittorie ma io non posso serbare di lui che un ricordo molto rispettoso e grato. Il nostro fu un rapporto giusto e senza pressioni. Molti hanno detto che Ferrari aveva un carattere duro. Non mi sento di dire questo. Ferrari voleva far vincere le sue macchine, ecco tutto. E se questo non accadeva poteva assumere atteggiamenti piuttosto determinati e decisi. Ma chiunque, al suo posto, avrebbe fatto la stessa cosa.

Però poco più che ventenne lei dichiarava testualmente che “per vincere un campionato bisogna essere una squadra e non sempre la Ferrari lo è”. Pentito?

No. Purtroppo a volte era proprio così.

Una volta lei accusò il Commendatore “di stare troppo lontano dalle corse e di dare sempre la colpa ai piloti se le macchine non andavano".

Essere impulsivi a vent’anni è una cosa normale, direi quasi inevitabile. Purtroppo non è possibile essere giovani e avere la testa di un vecchio saggio. Il nostro era un lavoro pericoloso che richiedeva molto coinvolgimento. In quella dimensione a volte i piloti non avevano un rapporto diretto con il Commendator Ferrari. Se lui fosse stato più giovane forse avrebbe potuto frequentare le piste, le corse e i piloti come faceva da giovane e dunque parlare di più con noi. Si sarebbe fatto un’opinione di quanto succedeva direttamente. Purtroppo questo non era più possibile perché quando io sono approdato alla Ferrari, il Commendatore era già molto avanti con gli anni. Le sue opinioni, e dunque le sue decisioni non sempre maturavano su sensazioni dirette, ma su opinioni riportate. Fosse stato possibile il contrario credo che la Scuderia avrebbe vinto di più. Ma non c’è nulla da fare, così va la vita.

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